lunedì 8 novembre 2010

Riflessioni di Giacomo Casanova

La mia storia è quella di uno scapolo, giunto nel 1791 a sessantasei anni, il quale si è impegnato principalmente, durante la sua vita, a coltivare il piacere dei sensi, non avendone trovato di più importante.
Sentendosi nato per l’altro sesso, l’ha sempre amato e fin da principio se ne è fatto riamare.
Gli è piaciuta anche la buona tavola.

Quest’uomo vede oggi imminente la sua fine, e quando ci pensa si rattrista.
Perché ama la vita come l’anima sua e i suoi sensi come se stesso. Era tutto ciò che aveva e nient’altro poteva interessarlo.
Quest’uomo scrive la sua storia per divertirsi, per rinnovare i piaceri avuti ricordandoli e per ridere delle pene che ha sofferto e che ormai ha sostituito con altre pene non altrettanto eccitanti.
Egli scrive la sua vita ora perché crede di aver finito di vivere e la scrive come un maggiordomo, che presenta al suo signore il rendiconto prima di andarsene a vivere altrove, ponendo fine ad una presenza che comincia a essere imbarazzante.
Pensa di essere esistito perché ha sentito e per conseguenza è convinto che non esisterà più quando avrà finito di sentire.
Se gli capiterà dopo la morte di sentire ancora, troverà divertente la faccenda, ma smentirà tutti coloro che gli andranno a dire che è morto.
Quelli che mi troveranno troppo abbondante nelle descrizioni dei miei piaceri, mi perdoneranno quando sapranno che questa abbondanza fu sempre la mia fissazione. Coloro i quali diranno che avrei dovuto avere vergogna a metterli sulla pagina sono padroni di dirlo. Può darsi che non avrei dovuto, ma non ho sentito questo dovere, e pertanto permetto che mi si insulti per questo chiamandomi immorale.
Lo sarei di meno se mi nascondessi?
Debbo avvertire il lettore che scrivendo la mia vita non pretendo di farmi degli elogi, né di propormi come modello. È al contrario una vera satira di me stesso che io propongo, anche se non ho voluto che suonasse come una confessione.
Tuttavia, nonostante la mia facilità di animo, non scriverei la mia vita se pensassi di rendermi con ciò disprezzabile.
Sono certo che i miei uguali non mi disprezzeranno, e questo mi basta, perché aspiro soltanto alla loro approvazione.
Se per farmi perdonare il male che ho fatto debbo confessarmi uno sprovveduto, ebbene, ho meno ripugnanza ad essere ritenuto colpevole che ad essere giudicato uno sciocco.
Mi dispiace però constatare di essere diventato buono solo perché non posso più essere malvagio, ma questo dispiacere non mi induce al disprezzo.
Io ho amore per me stesso, rimpiango la mia giovinezza e mi dispiace di essere prossimo ad uscire di scena.
Sono ben lontano dal disprezzare la vita, perché cosa mai significherebbe il disprezzo di una cosa amata che so di dover perdere?
Esisto e sento che morirò. Ma voglio che sia mio malgrado, il mio consenso saprebbe di suicidio.
Come si può non rimpiangere questo mondo dove le pene non sono che una interruzione dei piaceri immancabili di cui godiamo ogni giorno?
Occorre un fondo di idiozia e un’accanita incredulità per morire contenti – e io parlo da cristiano – perché nulla è più incerto della salute eterna.
È un dovere desolante quello che obbliga uno spettatore attento ad uscire da un teatro, dove il sapientissimo autore, Dio, fa recitare una commedia la cui interessante trama offre un intrigo e una soluzione, un inizio e una fine, delle spaventose catastrofi alternate a continue buffonerie, che temperano la tristezza dello spettatore, il quale diventa a sua volta autore, una commedia dove ciò che accade sorprende sempre, benché si dovrebbe essere prevenuti, e dove il filosofo stesso si trova piacevolmente sorpreso proprio perché scopre la novità nella ripetizione.
Non scrivo la vita di un uomo illustre e nemmeno un romanzo.
La mia materia è la mia storia e la mia storia è la mia materia e so che la mia vita, che interesserà molti, non avrebbe interessato nessuno se avessi vissuto per sessant’anni premeditando di scriverla.
I sapienti si interesseranno della mia storia quando sapranno che vi sono narrati dei fatti che l’autore non avrebbe mai immaginato di rappresentare, diventeranno curiosi di sapere ciò che è uscito da un uomo che si è abbandonato a se stesso e che ebbe per suo grande sistema non avere sistemi.
La mia storia è una scuola di morale e darà da pensare a coloro i quali sanno quanto poca forza spetta alla prudenza sulle vicissitudini della vita.
L’amor proprio che mi ha sempre dominato mi impone di non aggiungere o togliere niente alla verità.
Quando mi è capitato di gabbare uno sciocco, non mi sono sentito umiliato, ma ho creduto di vendicare lo spirito, perché non vi è nulla di più difficile che gabbare gli sciocchi. Essi hanno una corazza di bronzo.
Qualche volta ho ingannato delle donne ma esse si presero delle crudeli rivincite.
Quando credetti di riuscire ad amarle solo finché potevo farmi riamare, mi ingannai. Esse non mi amano più e io le amo ancora.
Tutte.
Verrò accusato di aver troppo dipinto le mie imprese amorose. In ciò emerge il mio cinismo, ma le accuse saranno giustificate solo se mi rivelerò un cattivo pittore.
Si dirà che illustro i fatti in un modo così particolareggiato da sembrare compiaciuto nel ricordarli.
Indovinato! Ammetto che il ricordo dei piaceri passati li rinnova nel mio vecchio animo. E mi trovo stupito al pensiero che non furono vanità dal momento che la mia memoria me ne garantisce la concretezza.
Ma gli spiriti critici insisteranno e diranno che le mie descrizioni troppo lascive possono accendere la fantasia del lettore.
È ciò che desidero. Voglio rendergli questo favore, perché non conosco un lettore nemico di se stesso. E poi quale il compito di un autore se non di interessare? E sarò condannato se faccio bene il mio lavoro?
Mi si dirà che tutto ciò che mette in pericolo la virtù è cattivo.
Mi arrendo e confesso che coloro, la cui virtù preferita è la castità e quelli per i quali l’ebbrezza amorosa è una malattia o, perfino, un modo per corrompere l’anima e, nello stesso tempo, quelli che si eccitano troppo ricordando i piaceri amorosi della loro gioventù, debbono astenersi dal sentire questa mia voce.
Se si considera lo smarrimento dei sensi una debolezza, peggio per quelli che questa debolezza non sanno perdonare. Che cosa si perdonerà all’umanità se non si dovessero perdonare le debolezze?
La sola cosa che il filosofo non deve mai perdonare è lo spirito tirannico, solo l’intollerante ci fa paura, mentre l’uomo tollerante è gradito sempre ovunque.
Sarò capito? Penso di sì.
Sarei presuntuoso se immaginassi di avere più spirito dei lettori che prevedo di avere.

Liberamente tratto da una prefazione che Giacomo Casanova scrisse per le sue Memorie e che poi accantonò per una versione più accomodante.

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